di Sofia Palma
Numerosi saggi sono stati scritti in merito al complesso rapporto che si instaura tra medico e paziente, così complesso e così delicato, e il pensiero è ancora in continua evoluzione. Fortunatamente i tempi in cui il paziente era in balia del medico, che decideva in “scienza e coscienza”, orientando le scelte verso quello che lui sapeva essere il bene del malato, sono finiti: il paziente, in passato, era trattato come un elemento passivo del processo terapeutico, visto come il campo di battaglia su cui medico e malattia combattono (Ippocrate).
La distanza da questa visione era stata presa già dagli anni 70 del secolo scorso ma è stata sancita soltanto di recente con l’inserimento del modulo di consenso informato nella pratica clinica (22/12/2017: norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che è il fondamento della shared decision making, ovvero del processo condiviso di decisioni in ambito sanitario.
La firma sul modulo di consenso informato corrisponde a dichiarare di essere in possesso di tutte le informazioni necessarie per prendere una decisione consapevole: questo implica, quindi, che la persona ha il diritto di ricevere e comprendere le informazioni necessarie per prendere la decisione più giusta, non solo rispetto alla sua condizione clinica, ma anche in base a preferenze personali e valori etici di vita. Questa visione comporta nuovi diritti, ma anche doveri, sia per il medico che per il paziente.
In particolare, il medico è tenuto a informare il paziente riguardo alla sua condizione clinica e alle diverse prospettive terapeutiche che ne conseguono, ponendolo di fronte a rischi e benefici di ogni scelta; allo stesso tempo al paziente è richiesto di informarsi, domandando chiarimenti finché non si sarà sentito sicuro di aver realmente capito tutto il necessario per poter partecipare al processo decisionale.
Infatti, soltanto chiedendo, chiedendo e ancora chiedendo, si ottiene la conoscenza necessaria per poter decidere e tracciare così la propria strada; mai sentirsi, a causa dei dubbi che vengono espressi, un paziente scomodo o problematico, perché il personale sanitario desidera sentire le opinioni e discuterne con il paziente.
Il consenso informato non comporta solo nuovi diritti, impone anche dei doveri al paziente: in primo luogo, una presa di responsabilità da parte del paziente, che deve partecipare a un processo di “consapevolezza”: in ambito medico questo termine può venire tradotto come il processo che porta il paziente a diventare consapevole di sé e delle proprie scelte, con lo scopo di essere posto al centro del percorso di cura. E’ un processo fondamentale perché la partecipazione attiva influenza positivamente la salute psicofisica del singolo.
In termini pratici, per arrivare a questo risultato, viene richiesto di porsi delle domande, di condividere pensieri e opinioni e di restare informato riguardo a eventuali progressi nel campo medico che lo riguardano. Questo, come sottolinea il bioetico Sandro Spinsanti nei suoi saggi, non corrisponde a un abbandono del paziente, che si trova a dover decidere per il suo meglio da solo, quanto a una opportunità per lui di accedere alla possibilità di contribuire a tracciare il suo percorso personale.
È quindi chiaro che la visione del rapporto medico-paziente è stata rivoluzionata in questi ultimi cinquanta anni, ma questo non è il punto di arrivo ma solo una tappa del percorso. Si stanno sviluppando altri modelli che tendono sempre più a spostare il focus sul paziente, a cui sempre più è richiesto di porsi in condizione di domandare, capire e partecipare. E’ tempo di investire tempo ed energie, sia da parte del personale medico che eroga le cure che da parte di chi le cure le riceve, per valorizzare condivisione e comunicazione, ed in particolare nei pazienti affetti da cardiomiopatia.