La mia cardiomiopatia ipertrofica vista dai due lati della barricata

La mia storia inizia a 12 anni in occasione di una visita cardiologica eseguita per poter iniziare tennis a livello agonistico. In quella visita mi viene riscontrato un blocco di branca destra ed un soffio sistolico. Il cardiologo, il Dr. Poponcini, pensa subito ad un difetto interatriale e mi invia a Firenze da un suo amico e collega per eseguire un ecocardiogramma.

Quella fu la prima volta in cui mi recai nello studio via Jacopo Nardi a Firenze. In quella occasione non incontrai però Franco Cecchi, che successivamente sarebbe diventato il mio cardiologo, nonché amico e collega. Fui visitato da un altro suo collega, con il quale condivideva lo studio, il Dr. Zuppiroli. Era il 1984 e l’ecocardiogramma allora era solo mono-dimensionale. Vedevo scorrere sulla carta che usciva dalla stampante e sullo schermo delle onde, solo apparentemente caotiche, all’interno delle quali il Dr. Zuppiroli sceglieva accuratamente dei punti tra i quali misurava distanze. La distanza in particolare che definì la diagnosi era all’epoca 20 mm. Nessun buco nel cuore quindi, nessun difetto interatriale bensì un’altra diagnosi: Cardiomiopatia ipertrofica non ostruttiva. Ricordo ancora da una parte il nostro sollievo, incosciente, per lo scampato pericolo di un imminente intervento chirurgico, dall’altra il tentativo di informarci su quel concetto di morte improvvisa che, allora ancor più di oggi, era una vera spada di Damocle sulla testa di noi pazienti.

Quel giorno mi cambiò la vita in più modi, non solo perché mi fu diagnosticata la Cardiomiopatia ipertrofica. Non so dire ancora oggi se rimasi più affascinato dalla figura elegante del Dr.Zuppiroli o da quelle onde che lui riusciva magistralmente ad interpretare scegliendo punti apparentemente a caso. Sicuramente però fu quello il giorno in cui decisi che anche io avrei fatto quel lavoro (non più il muratore). Non cambiai più idea fino alla mia specializzazione in Cardiologia nel 2001. Tesi di laurea su una forma particolare di Cardiomiopatia ipertrofica, la malattia di Fabry, e tesi di specializzazione sulla Cardiomiopatia ipertrofica ad evoluzione ipocinetica. Un percorso indirizzato a capire la mia malattia per gestirla e curarla meglio come cardiologo, con in più la “fortuna” di poterla conoscere anche come paziente.

Sembrerà strano ad alcuni che io scriva “la fortuna”, ma non ho mai vissuto la mia Cardiomiopatia come una sventura od una limitazione. Al contrario, da paziente con il mio percorso, ho progressivamente acquisito una maggior empatia verso chi soffre, accompagnata parallelamente da una malcelata insofferenza per i pazienti che lamentano grandi disagi per disturbi minimi.

Ho vissuto una vita normale finché ho potuto e quando non ho più potuto, a causa dei sintomi progressivamente ingravescenti, ho sempre provato a far sì che la vita che potevo vivere fosse per me, in quel momento, la migliore del mondo.

Ricordo ancora una frase del mio mentore negli anni dell’Università, il Professor Attilio Maseri, in risposta ai miei timori nel recarmi per la prima volta, da solo, al congresso American College of Cardiology a New Orleans per presentare i risultati delle mie prime ricerche: “Non metterti da solo sotto una campana di vetro senza vivere la tua vita. Se i problemi arriveranno li affronterai. Uno per volta”. Così ho fatto negli anni successivi, quando la mia Cardiomiopatia ha avuto una evoluzione restrittivo-ipocinetica (pessima elasticità e pessima forza contrattile) e sono ricorso all’amico Prof. Franco Cecchi, con il quale condividevo anche l’interesse nei pazienti con Malattia di Fabry. La fibrillazione atriale, gli anticoagulanti, il tentativo inefficace di ablazione, l’impianto di defibrillatore. Anni duri, nei quali mi ha sempre supportato la passione per il mio lavoro, la fede in Dio e la vicinanza di mia moglie, che mi ha preso con sé quando già iniziavo ad avere sintomi importanti, ma che non mi ha mai fatto pesare tutte le cose che non potevamo fare a causa della mia condizione. Il modo migliore per stare vicino ad un cardiopatico. Potrei raccontarvi della cardioversione elettrica eseguita a New York in viaggio di nozze, della mia convivenza difficile con il defibrillatore, del TIA con dislessia del quale adesso ancora ridiamo quando ricordiamo le parole bislacche che pronunciai in quei 5 minuti.

Anni duri, dicevo, ma che mi hanno insegnato tanto della malattia e di me stesso.

Arriviamo a Dicembre 2009, Congresso della Società Italiana di Cardiologia, hall del meraviglioso Hotel Cavalieri Hilton di Roma. Sono ormai in classe NYHA IV, ultima fase dello scompenso cardiaco, ma sto ancora faticosamente lavorando. Non sono lì per il congresso ma per incontrare il                  Franco, con il quale avevamo già parlato del trapianto e  per dirgli “Ci siamo”. “Bene, chiamo io” mi rispose. A Gennaio 2010 iniziavo l’iter per entrare in lista per il trapianto di cuore. Non è difficile decidere di sottoporsi ad un trapianto cardiaco. Ad oggi è stata per me la decisione più grande ed al contempo più semplice da prendere. Banalmente perché senti dentro di te che non hai più altra scelta, che il trascinarsi non ha più senso, e che lo sforzo fisico e psicologico è diventato insostenibile. Questo i cardiologi spesso non lo sanno, e solo i più bravi riescono a percepirlo. Il Prof.McKenna, uno dei massimi esperti di Cardiomiopatia ipertrofica, mi disse: “You will shift from one disease to another one” (“Passerai da una malattia all’altra”) riferendosi alla condizione di immunodepressione che caratterizza la vita dei pazienti dopo il trapianto. Ma lui, pur essendo un grande cardiologo, non è mai stato un cardiopatico e non conosce lo “shift” , cioè il passaggio dalla disperazione alla speranza, dalla dispnea per sforzi minimi al primo respiro che fai quando ti risvegli dopo il trapianto.

Sono stato trapiantato la notte tra il 5 ed il 6 Ottobre 2010. Il 5 Ottobre è il giorno in cui viene venerata S. Faustina Kowalska, celebrata nella chiesa di Santo Spirito in Sassia a Roma, dove è stato celebrato il mio matrimonio. Sicuramente una coincidenza.

Il mio donatore, Fabio, è deceduto in un incidente stradale ma è sempre con me.

Io ho ripreso a lavorare nel Marzo 2011, prima a Roma al Policlinico Gemelli e poi nello stesso anno ad Arezzo, dove sono nato e cresciuto. Non voglio raccontarvi il percorso prima, durante e dopo il trapianto come una favola da film. Alcuni non ce la fanno a raggiungerlo e per altri lo stesso intervento risulta fatale. Il post-trapianto è un percorso complicato sia fisicamente che psicologicamente, ma è comunque una seconda chance. Oggi a distanza di quasi 10 anni, riesco a vivere una vita lavorativa, di assistenza e ricerca, e di affetti, piena di impegni e di emozioni.

Quello che mi sento di dire ai pazienti è ovviamente di non mollare mai, di godersi la vita che avete in quel momento, di avere fede nei vostri medici, nella scienza che va avanti inesorabilmente e, se credete, in Dio.

Ai miei colleghi vorrei invece chiedere di non dimenticare mai, nelle loro prescrizioni e raccomandazioni ai loro pazienti, di aggiungere sempre una nota di speranza, un sorriso, una pacca sulla spalla o una carezza.

Noi cardiopatici con un filo di speranza ci facciamo chilometri.