Dott. Gabriele Castelli, Unit Cardiomiopatie – AOU Careggi Firenze
La Cardiomiopatia Dilatativa idiopatica è sempre stata ritenuta una condizione molto grave, con indici di mortalità sovrapponibili a quelli di alcune fra le più importanti malattie neoplastiche. Negli anni ‘80 la sopravvivenza a 5 anni era inferiore al 50%! In circa la metà dei casi il decesso era imputabile ad un’evoluzione intrattabile della severità dello Scompenso Cardiaco, mentre nell’altra metà era legata ad arresto cardiaco causato per lo più da Fibrillazione Ventricolare.
Fortunatamente i nuovi interventi terapeutici hanno radicalmente modificato l’evoluzione di questa malattia e reso possibile un netto miglioramento della sopravvivenza e della qualità della vita. In particolare sono numerosi i nuovi farmaci, introdotti inizialmente per la terapia dell’ipertensione arteriosa, per i quali è stata dimostrata l’utilità nei pazienti con Scompenso Cardiaco: i farmaci ACE-inibitori ed i bloccanti dei recettori dell’Angiotensina (Sartani), ma soprattutto i farmaci Betabloccanti. Ulteriori recenti miglioramenti sono stati raggiunti con l’uso dei farmaci antialdosteronici e più recentemente con gli inibitori della Neprilisina associati a sartani (Sacubitril-Valsartan). Tuttavia la ricerca continua. In questi ultimi anni alcuni studi hanno dimostrato che l’aggiunta di alcuni farmaci compresi nel gruppo detto “glifozine”, peraltro già in commercio per il controllo della glicemia nei pazienti diabetici, permette un ulteriore netto miglioramento non solo nei pazienti diabetici con Scompenso cardiaco ma anche in quelli non diabetici.
Negli ultimi vent’anni, fondamentale è stato però anche l’apporto degli apparecchi impiantabili come ad esempio il Defibrillatore (ICD), che riduce il rischio di morte improvvisa ripristinando il battito dopo arresto cardiaco e/o il Pacemaker biventricolare (CRT o terapia di “resincronizzazione”), che può migliorare la forza di contrazione (detta anche “funzione sistolica”) del ventricolo sinistro nei pazienti con Blocco di branca sinistro, ed anche di far tornare il cuore alle normali dimensioni. Infine ovviamente il provvedimento più estremo: il Trapianto Cardiaco.
Riesaminando oltre 600 pazienti con Cardiomiopatia Dilatativa seguiti regolarmente presso il Centro di Riferimento Regionale per le Cardiomiopatie dell’Azienda ospedaliera universitaria Careggi ora trasformato in Unit Cardiomiopatie, e suddividendo i pazienti in periodi storici di “prima diagnosi” dal 1977 al 2011, abbiamo osservato come il rischio di mortalità si sia ridotto nel tempo ad un decimo di quello osservato nei primi anni di studio di questa malattia.
Oggi la sopravvivenza libera da trapianto cardiaco a 10 anni supera l’85% dei casi. Ma dato che oggi il trapianto cardiaco permette di prolungare di decenni la vita dei pazienti anche grazie alla moderna terapia immunosoppressiva, che consente di evitare il “rigetto”, la mortalità reale a 10 anni dei pazienti con Cardiomiopatia dilatativa è scesa ben al di sotto del 10%.
Non vi sono molti altri esempi di successi così rilevanti nella gestione di patologie di paragonabile severità.
Questi risultati dimostrano dunque come l’evoluzione del trattamento farmacologico e non farmacologico della Cardiomiopatia Dilatativa abbia determinato un enorme guadagno in termini di sopravvivenza e di qualità della vita dei pazienti nel mondo reale. Ovviamente ciò è reso possibile anche dal contesto organizzativo e dal regolare controllo periodico dei pazienti, che necessitano di una sorveglianza continua ed esperta del loro stato clinico per indirizzare ed impiegare al meglio, in modo personalizzato, le risorse che la farmacoterapia e la ricerca clinica hanno reso disponibili.