Accanto al paziente il familiare che può salvargli la vita
di Laura D’Ettole
Sono arrivati in 15 da mezza Italia, dalla Sicilia a Milano e ovviamente dalla Toscana, in “rappresentanza” di una trentina di pazienti. Genitori, coniugi, figli: una rete familiare che si stringe intorno al paziente cardiopatico per soccorrerlo in caso di difficoltà. Si tratta del corso “Gestione delle emergenze e basi teorico pratiche della rianimazione cardiopolmonare”, affiancato al primo seminario di Aicarm dedicato alla formazione del “Paziente esperto di malattie ereditarie del miocardio” (Firenze 4-5 novembre).
Molti familiari hanno potuto attingere per la prima volta al bagaglio di conoscenze necessario a fronteggiare una patologia legata, nell’immaginario, allo spettro della morte improvvisa. “Questo evento purtroppo era vero all’inizio, perché descritto in ragazzi giovani che morivano con il cuore ingrossato”, ha spiegato Maurizio Pieroni, cardiologo dell’ospedale di San Donato di Arezzo. Ma man mano che le conoscenze progredivano “si è visto che la malattia non è così letale”. Oggi la mortalità per cardiomiopatia ipertrofica “in America è addirittura più bassa della mortalità generale”. Vero è che, al di là delle cure, molto dipende dalla capacità di intervenire tempestivamente in caso di emergenza. Per questo è strategico il ruolo del familiare “che deve essere anche un po’ psicologo, cercare di capire cosa non va” e decifrare i segnali di allarme, i sintomi gravi.
“La morte cardiaca improvvisa colpisce una persona ogni nove minuti in Italia, un individuo ogni mille abitanti. Molti di loro possono essere salvati”, sottolinea Paolo De Cillis di Irc, l’associazione nata con l’intento di formare alla rianimazione cardiopolmonare extraospedaliera. “Se il paziente non mostra parametri vitali ci sono pochi minuti per intervenire prima che i danni al cervello diventino irreversibili”. I primi danni cerebrali arrivano dopo 3/4 minuti. Dopo 10 sono irreversibili. Il messaggio è forte, la responsabilità della rete di prossimità del paziente enorme. E De Cillis spiega prima in linea teorica, poi con prove pratiche su un manichino professionale, tutte le tecniche da mettere in atto per la “catena della sopravvivenza”. Dalla verifica dei parametri vitali, al massaggio cardiaco, all’uso del defibrillatore.
“Negli Stati Uniti queste cose le impariamo a scuola” dice Ming, 52 anni, originaria di Taiwan, vissuta a lungo in America. Il marito soffre di cardiomiopatia ipertrofica e hanno un figlio, ma lei ha voluto seguire il corso anche per un senso di responsabilità sociale: “Volevo rinfrescare le mie conoscenze nel caso dovesse servire” anche al di fuori delle mura domestiche. Diverso lo stato d’animo di Luisa M. di Firenze. Scoprono la malattia del marito in modo quasi casuale: perché sveniva lui quando toglievano il sangue a lei. Poi, nel tempo, anche la figlia Elisa (che adesso vive lontano) risulta affetta da cardiomiopatia dilatativa. “Mio marito mette da parte, sembra ignorare tutto ciò che può fargli del male. Forse vive meglio di tutti, ma io sono continuamente in apprensione per lui, per mia figlia”. Luisa si sente la parte “consapevole” della famiglia. E questo ruolo le risulta pesante. “Seguire questo corso aiuta a gestire la mia apprensione”.
Cristina G., di Arezzo, ha un marito di 67 anni con cardiomiopatia ipertrofica e un figlio, Filippo, di 35 anni con problematiche simili. “Ha scelto lui di fare indagini, anche se asintomatico. La sua malattia adesso è sotto controllo e non è progredita”. “Sono al corso perché in casa ho vissuto due situazioni pericolose. Vorrei che non capitasse mai, ma pensare di essere lì e non fare niente per aiutare i miei cari è una cosa che non mi perdonerei mai”.
Paolo De Cillis in una dimostrazione al Corso di rianimazione cardiopolmonare.